Stefania Avolio: l’intervista

Di inizi, creatività, sogni ma anche di aspetti pratici in cui si imbatte ogni musicista nel suo percorso. 

Tra immagini sonore, luoghi e ricordi, una lunga chiacchierata con Stefania Avolio, pianista, cantante e compositrice veronese che lo scorso 28 marzo ha pubblicato il suo terzo disco, “I Have Been Here”, con la New Model Label di Milano.

Cantante, pianista, compositrice e suoni anche il synth: quando hai iniziato ognuno di questi percorsi? 
Ho iniziato a suonare il pianoforte a quattro anni e mezzo. I miei genitori mi iscrissero a una scuola di musica, dove la mia prima insegnante dirigeva anche un coro di voci bianche — così, quasi senza accorgermene, iniziai anche a cantare.

Ricordo perfettamente quando avevo tre anni: mi sedevo in cucina, con i piedi appoggiati sulla traversa della sedia e i gomiti sulle ginocchia, per guardare la piccola televisione di casa. Mi sintonizzavo sempre su RaiTre, perché c’erano le orchestre e un pianista che suonava. Sognavo di essere io al suo posto, di poter un giorno suonare davanti a un pubblico.

Mi sono formata al Conservatorio di Verona, dove mi sono diplomata sotto la guida della professoressa Reale, e successivamente ho conseguito la laurea di biennio solistico pianistico. In quegli anni ho studiato moltissimo, divisa tra il Conservatorio e l’Università di Architettura a Venezia: due mondi diversi, ma entrambi fondamentali per la mia crescita artistica.

La composizione è arrivata più tardi, nel 2019, quando ho iniziato a scrivere il mio primo album Natural Element. Mi ha sempre affascinato l’idea di comporre, forse anche perché vedevo mio marito lavorare alle sue musiche e ne restavo incantata. Un giorno ho sentito il desiderio di mettermi alla prova, di capire se anch’io sarei riuscita a creare qualcosa di mio – e da lì non mi sono più fermata.

Negli ultimi anni (direi dal 2019, prima della nascita del mio primo album) ho iniziato anche a esplorare il mondo dei synth e dei suoni elettronici, che mi permettono di ampliare il linguaggio del pianoforte e di creare paesaggi sonori più ampi e contemporanei. In particolare, ho iniziato quando mio marito stava componendo il suo album ’Frames’: in casa avevamo (e abbiamo ancora) un Prophet 08 e diversi pedalini, e ho cominciato ad avvicinarmici un po’ alla volta, sai come fanno i bambini quando scoprono un nuovo gioco? 

Io poi sono un’amante sfegatata della musica degli anni ‘80 – David Bowie, Eurythmics, Depeche Mode, Cocteau Twins, per citarne alcuni – e qualcuno mi ha detto che questa passione si percepisce anche nei miei arrangiamenti e nei suoni che scelgo.


Se dovessi raccontare la tua musica usando tre aggettivi, citando tre luoghi e tre dischi altrui che potrebbero essere una reference per ciò che scrivi, quali sceglieresti?

Descriverei la mia musica come intima, evocativa e atmosferica. Nasce sempre da un’emozione vissuta e cerco di trasformarla in immagini sonore, in un viaggio che unisce realtà e memoria.
I luoghi che più mi rappresentano sono l’Islanda (da un viaggio incredibile che ho fatto nel 2023) per la sua natura potente e silenziosa; il Grand Canyon (da un viaggio nel 2018), per la sensazione di immensità e libertà; e le Sette Sorelle (nel viaggio che ho fatto, sono rimasta delle ore ad ammirarle), con le loro scogliere bianche che si affacciano sul mare, per quel misto di fragilità e forza che sento molto vicino al mio modo di essere.

Se dovessi citare tre album che rappresentano il mio universo musicale, direi “After the Great Storm” di Ane Brun, ‘Ok Computer’ dei Radiohead e ‘Post’ di Björk. Tre lavori che mi hanno insegnato quanto sia possibile unire fragilità e potenza, intimità e vastità.


Fare musica può essere un lavoro? Come si arriva a farla diventare tale?

La musica è la mia vita, e senza di lei non esisterei. Dunque, sì, può essere un lavoro – ma prima di tutto, per me, è una vocazione. È qualcosa che va alimentato ogni giorno, coltivato e curato con la stessa dedizione che si riserva a ciò che si ama profondamente. Come per ogni professione, per trasformarla in un vero lavoro servono preparazione, studio, costanza, impegno e una buona dose di determinazione.


In tanti anni di live ti sei esibita sia in Italia che all’estero: mettiamo a confronto queste esperienze facendone un bilancio?

Non mi sento di fare una distinzione netta, ma ho notato che in alcuni contesti all’estero il pubblico ha un approccio diverso, forse più abituato a certi linguaggi musicali.

Allo stesso tempo, in Italia ho avuto esperienze bellissime: ho incontrato direttori artistici sensibili, preparati e umani, che hanno creduto nella mia musica e con cui ho sentito una vera affinità.
Capisco però che il genere che faccio, e il fatto che io canti in inglese, possano rendere più difficile per chi mi ascolta, qui in Italia, entrare subito nel mio mondo. Canto in inglese perché la sento come la lingua più naturale per il mio genere musicale, ma spero che, al di là delle parole, arrivi sempre l’emozione di ciò che voglio raccontare.


Tra le attività creative e pratiche, ordinarie e straordinarie, che ti coinvolgono come artista, quali sono gli aspetti più facili da affrontare? Quali quelli più complicati? 

Le parti più facili per me sono quelle legate al suonare dal vivo. Ho bisogno del contatto con le persone, di sentire l’energia reciproca e di poter trasmettere ciò che ho dentro attraverso la mia musica.  Mi nutro di quello.

Comporre, invece, nonostante sia la parte più affascinante, è un processo creativo lungo e complesso: per alcuni brani è qualcosa di naturale, quasi spontaneo, mentre per altri richiede tempo e pazienza. Quando ci si occupa di tutto — dai testi alle linee melodiche, dalle armonie alla costruzione dell’intera parte strumentale e alla scelta dei suoni — il lavoro diventa inevitabilmente più macchinoso. Ci sono momenti in cui tutto si incastra perfettamente… altri in cui no, e bisogna avere la forza di aspettare, meditare, ricostruire, scartare, riprovare, ancora e ancora fino a che le cose trovino il loro equilibrio.

La parte più faticosa, però, è quella legata alla promozione. Oggi un musicista deve essere un po’ di tutto: manager di se stesso, agenzia di booking, grafico, compositore, ufficio stampa, tour manager, social media manager… È un impegno enorme che richiede tempo, energia e capacità molto diverse tra loro.


Come muoversi nel mondo della musica attuale? Rimanere in tutto e per tutto indipendenti e fare tutto da soli? Farsi aiutare? E come scegliere da chi farsi eventualmente aiutare? Su quali aspetti?
Non ho la risposta a come muoversi nel mondo della musica attuale.

Posso solo dire che, per me, la cosa più importante resta esibirsi in pubblico e condividere emozioni, storie e pensieri vissuti. È sul palco che si crea davvero il legame con le persone, molto più che attraverso numeri, ascolti o playlist. Se anche solo una persona ricorda il tuo nome e ti racconta ciò che ha provato ascoltandoti, allora hai raggiunto il tuo obiettivo.

È una strada lunga e non sempre facile, fatta anche di porte che si chiudono, ma sono proprio quelle esperienze che ti aiutano a capire chi sei, a cosa tieni davvero, e a rialzarti con più consapevolezza. Tutto il resto rischia di essere solo una dispersione di energie che dovrebbero restare concentrate sulla creazione musicale. Sicuramente è importante farsi aiutare, se possibile, ma da persone di cui si conosce bene la professionalità e il campo in cui lavorano. Circondarsi di persone che credono davvero nella tua musica e rispettano la tua identità artistica fa la differenza.


Salutandoci, parliamo di sogni: quello che hai realizzato e quello che vorresti realizzare un giorno.
Uno dei sogni che ho realizzato è quello di aver potuto suonare per molte persone, in diversi luoghi d’Europa, soprattutto nell’ultimo anno, con il mio terzo album. È un progetto a cui ho dedicato due anni e mezzo tra composizione e realizzazione, e vederlo finalmente prendere vita davanti a un pubblico è stata un’emozione profonda, quasi difficile da descrivere.

Il sogno che invece porto ancora con me è quello di continuare a far viaggiare la mia musica, fare nuovi album e raggiungere luoghi sempre nuovi e persone che ancora non conosco. Mi piacerebbe poter suonare in spazi dove la musica incontra il silenzio e la natura – teatri, musei, chiese, sale intime – e continuare a crescere, restando fedele a me stessa e a ciò che voglio raccontare.