Godot: l’intervista

L’educazione emotiva, il cantautorato e l’attesa di Didi e Gogo: Giacomo Pratelli aka GODOT, brianzolo dal cuore in fermento e le orecchie sempre colme di suoni e parole, si racconta.

Dopo il tuo primo lavoro di studio, ti sei preso una pausa dalla musica: cosa ti ha fatto scendere la catena? Qual è stata la scintilla che invece ti ha fatto tornare la voglia e l’interesse di ripartire?

Già, mi sono preso una pausa, una pausa che in realtà non è mai finita. Tuttora vivo il mio progetto musicale con una maggiore distanza, con tempistiche diverse e meno soffocanti. 

A fare musica siamo tantissimi e tantissime e il mercato musicale, così accessibile, sembra fornire continui lascia passare per un successo quasi assicurato, a patto che si voglia essere sempre online, sempre performanti e sempre “di successo”. C’è una narrativa molto tossica intorno alla musica, anche e soprattutto quella indipendente. E io ho capito di non voler giocare a questo gioco. Quando la gente mi cercava o mi contattava più per il personaggio che per la mia musica ho capito che era tempo di cambiare qualcosa. Mi sono preso una pausa ma ho continuato a scrivere e a produrre musica ma in maniera offline. Non è vero che se sei offline non esisti! Io esisto eccome e credo non tornerò indietro.

Identità di genere, flussi migratori, autodeterminazione, nelle tue canzoni affronti anche tematiche di attualità. La storia del cantautorato nostrano ed internazionale è ricca di artisti che hanno utilizzato il microfono a disposizione per denunciare, parlare di politica, impegno civile: in un momento come quello che stiamo vivendo in cui è potenzialmente molto facile dire la propria, mostrarsi e attirare consensi, ha ancora valore l’utilizzo di un palco anche per schierarsi, dire qualcosa che serva?

Con la musica si può provare a influire positivamente su ciò che ci sta attorno?

Assolutamente! E non sto tratta di farlo solo quando si ha una posizione tale da portarlo fare. Siamo tutti e tutte corpi politici e ogni nostra scelta è una scelta che ha un preciso significato. La musica, così come tutta l’arte, ha un ruolo di grande importanza in questo senso: le parole che vengono scritte e cantate sono parole che si caleranno poi nella vita degli ascoltatori e delle ascoltatrici. È una grande responsabilità a cui ogni autore o autrice – di qualsiasi genere musicale – non può sottrarsi. 

Credo molto nel potere educativo della musica: non è un’educazione scolastica ma emotiva e profonda. C’è bisogno di cura quando si fa musica. 

Quali sono le tematiche che ti toccano maggiormente, quelle di cui credi sia fondamentale parlare?

Quelle legate alle diversità. Il “diverso” spaventa e questo è innegabile. Ma la paura verso l’alterità è una paura che può essere addomesticata. Ci vuole apertura mentale, voglia di scoprire e di lasciarsi scoprire. Ci vuole coraggio, anche. 

Nelle mie canzoni parlo di identità sessuale e di genere come di migrazioni, lo faccio in maniera credo delicata ma dentro di me quando scrivo sento le bombe esplodere. 

Come nasce una tua canzone? Parti da una nota vocale sul telefono come accenni nella presentazione di Ultraleggero, il tuo ultimo singolo, e poi…?

Scrivere canzoni è un processo sempre nuovo. Solitamente succede tutto in maniera quasi casuale, inaspettata. Nasce un motivetto e poi diventa altro, si evolve. Annoto tutto sulle note del telefono e provo poi a elaborare il tutto nel più breve tempo possibile: odio quando le cose vanno per le lunghe! Scrivo quasi sempre al piano o all’ukulele perché sono strumenti versatili che mi permettono di assecondare quello che succede nella mia testa. Il mio focus è comunque sempre più sul testo che sulla musica.

Quando finisco di scrivere collego il telefono ad una cassa che porto sempre con me e riascolto a tutto volume, cantando a squarciagola quella che spero potrà diventare la mia prossima canzone! 

Nelle scorse settimane hanno annunciato i nomi dei big in gara a Sanremo: chi ti piacerebbe vedere sul palco? A te piacerebbe prendervi parte? Qual è il Festival in cui vorresti esibirti?

Sono arrivato tardi e i nomi li hanno già annunciati. Sono contentissimo di vedere sul palco Lucio Corsi, sono un suo grande fan e lo trovo tra i migliori cantautori della scena contemporanea. 

Ovviamente anche io ho sempre sognato Sanremo, ma non so quanto reggerei tutta la calca mediatica che gli ruota intorno: amo i palchi e amo starci sopra, ma tutto il resto mi crea sempre grande disagio…

Amo molto anche i festival estivi, soprattutto quelli che chiudono le giornate calde fatte di salsedine e pennichelle. Ho frequentato tanti anni il Locus, ad esempio. Mi piace quella dimensione! 

Quali sono invece, anche guardando fuori dall’Italia, le/gli artiste/i da cui ami lasciarti influenzare?

Ascolto prevalentemente cantautorato Italiano, da De Gregori a Carmen Consoli, da Levante a Vasco Brondi. Sogno però di fare prima o poi un disco alla Keaton Henson, anche se mi manca decisamente quella capacità vocale! 

Per il tuo nome d’arte ti sei rifatto al protagonista di un’opera di Beckett: quanto di altro – letteratura, cinema, pittura … – oltre al quotidiano, alle tue idee e ai tuoi ascolti, convoglia nei tuoi brani?

Non tantissimo ma succede, effettivamente! Ad esempio, Controtempo è una canzone nata dopo aver terminato la lettura di Call Me By Your Name. Chiuso l’ultimo capitolo mi sono alzato e mi sono messo al piano e, dopo pochi minuti, è nata la canzone. 

Per il resto però ammetto che la maggior parte della mia scrittura nasce da quello che succede nella mia quotidianità. O che succede a chi mi è intorno! 

Scrivere per me è davvero una terapia nonché una necessità, è uno spazio di cui ho enormemente bisogno. Dentro le mie canzoni ci sono le mie giornate, le mie tristezze e le mie malinconie, ma anche i miei amori e le mie piccole felicità!

Didi e Gogo aspettano senza far nulla Godot, tu per quale obiettivo ti stai invece adoperando, con la speranza che si materializzi davanti a te?

Per la serenità! 

Me ne vado a Londra non è solo il titolo di un ep ma è anche ciò che è successo: tra i paesi in cui hai vissuto c’è anche l’Inghilterra. Dai posti che hai avuto modo di conoscere e vivere, quali sono gli insegnamenti e/o le suggestioni che porterai per sempre con te?

Per molti anni sono stato sempre in viaggio: ero una trottola. L’Inghilterra ma poi soprattutto la Cambogia, l’India, il Laos…viaggiare mi ha fatto sentire piccolissimo e mi ha fatto scoprire di essere un granello, un po’ come canto in una mia canzone.

Mi ha però fatto appassionare all’umanità e a tutte le sue sfaccettature. La passione per le alterità è nata così, in viaggio! 

Portò sempre con me la bellezza dello scoprirsi e del lasciarsi scoprire, senza muri o barriere. 


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